Quanto rompono i foil al Vendée Globe… Domanda: al posto dei puntini mettereste un punto interrogativo o un punto esclamativo? Chiedevo, nel senso: pensate che queste barche siano più fragili/pericolose delle care vecchie barche di una volta (magari gli stessi Imoca, ma senza foil)? Che, insomma, mostri che volano a 30 nodi siano troppa roba? Che la vela si sia spinta troppo oltre? Se la risposta a quest’ultima domanda è “sì, i foil rompono” allora la statistica, al momento, non vi dà ragione. Procediamo con ordine.
Ritiri al Vendée Globe
Al momento, a circa un terzo della regata, i leader sono appena entrati nel grande sud, dirigendosi verso l’Australia con il sudafricano Capo di Buona speranza dietro la poppa. Sui 33 partiti da Les Sables D’Olonne lo scorso 8 novembre, 18 dei quali con barche dotate di foil, a questo punto della regata ufficialmente ritirati ci sono cinque skipper: Kevin Escoffier su PRB; Nicolas Troussel su Corum L’Epragne; Alex Thomson su Hugo Boss; Sébastien Simon su Arkea Paprec; e Sam Davies su Initiative – Coeur. Tutte con i foil, è vero. Ma con dei distinguo.
Nicolas Troussel ha disalberato. Non un problema di strutture della barca (varo 2020). Caso singolare perché gli alberi (come le chiglie) degli Imoca sono monotipo per regolamento di classe.
Initiative – Coeur (barca del 2010) ha subito danni strutturali a causa della collisione con un oggetto semigalleggiante non identificato. La britannica, probabilmente la favorita tra le sei forti navigatrici partite (un record per la regata), ha comunque annunciato che se i danni sono riparabili a Cape Town, dove ha fatto rotta, continuerà anche se fuori classifica.
Alex Thomson, il grande sconfitto, ha rinunciato non tanto per i danni strutturali a prua, che ha affermato di aver riparato completamente, ma per un successivo problema a un timone di Hugo Boss, altra barca di ultima generazione. Alex l’ha smontato, ha provato a ripararlo mentre navigava con una pala sola, ma poi si è dovuto arrendere all’impossibilità di continuare.
Ben noto il caso di Kevin Escoffier. La sua PRB (un Imoca del 2010 cui sono stati aggiunti i foil nel 2017) si è letteralmente spezzata in due con la prua a 90 gradi rispetto alla poppa. È affondata in pochi minuti.
The King Jean Le Cam a bordo di Yes We Cam è stato il primo skipper a raggiungere il luogo dove era stato lanciato il mayday e a raccogliere il naufrago. Curiosità nella disgrazia, durante la Vendée Globe 2008-2009, Vincent Riou, l’allora skipper di PRB, salvò Jean Le Cam dal suo IMOCA 60 che si capovolse a Capo Horn (e non erano tempi di foil).
Sèbastien Simon ha gettato la spugna dopo che un foil di Arkea Paprec (varo 2019) è andato fuori uso dopo la collisione con un Ufo.
Se vogliamo parlare di altri problemi ai foiler, anche se non hanno causato un ritiro, possiamo aggiungere che Jeremie Beyou è praticamente partito con nove giorni di ritardo perché è tornato in porto per riparare un timone danneggiato subito dopo la partenza.
E anche Thomas Ruyant, nelle posizioni di testa con LinkedOut, ha gestito con successo seri problemi a un foil.
Barche più veloci in gare estreme
Quindi il problema sono i foil? Beh, se guardiamo la statistica i numeri ci dicono che ogni edizione del Vendée circa il 50% dei partenti non riesce a completare il giro. Se volete dati precisi basta un salto su Wikipedia. Per ognuna delle nove edizioni sono indicati i classificati e i ritirati. Però la percentuale dei concorrenti con giri completati aumenta nelle ultime edizioni. E non ci sono stati più morti dal 1997, per fortuna (o per merito?). È un fatto: le barche si rompono di meno. Anche quest’anno siamo in linea: a un terzo di regata abbiamo il 15% di ritirati; se si mantiene questo ritmo alla fine ne arriveranno 18, ovvero il 55% dei partenti.
Gli Imoca si rompono, certo. Come si può rompere ogni mezzo meccanico realizzato per vincere una gara estrema. Come un Vendée, in mare, o una Dakar, in terra. Finora si sono rotti solo i foiler, quelli di testa. Pare normale che le barche più stressate siano le più… tirate. Per innovazione del progetto e per volontà dello skipper.
Ogni salto tecnologico comporta una zona grigia della teoria che deve essere illuminata dalla pratica per poter poi essere utilizzata senza problemi. E si sperimenta dove si può: dove ci sono i soldi. Intorno a una regata come il Vendée, ma anche come la Ocean Race o la signora Coppa America ce ne sono tanti. Nella competizione c’è ricerca e spinta per andare più veloce degli altri. Ci sono velisti, progettisti e costruttori disposti a provarci e a rischiare (e dietro di loro gli sponsor che tengono in piedi tutta la baracca).
Le barche sono spinte al massimo dagli skipper che vogliono vincere. Se vuoi arrivare primo devi essere disposto a fare più di ciò che l’altro è disposto a fare per arrivare prima di te. E su una barca più veloce. Perché puoi essere bravo quanto vuoi, ma se la sua barca cammina di più non hai chance. Quindi i navigatori del Vendée la barca la fanno andare forte e ne vogliono una che va forte. Ciò significa di nuovo rischiare in una zona grigia e magari dimostrare che quella scelta è da evitare. Ci sta, nel gioco, così come in tutto lo sport, che un atleta non completi la gara. Non vi siete mai ritirati in regata, voi? L’uomo vuole andare veloce, anche in barca. E ogni regata a cui avete partecipato avete cercato, con i mezzi a disposizione, di andare più forte di tutti gli altri. Sempre.
Se si va forte non è colpa dei foil, ma è merito. Certo si rompono spesso, ma non è solo colpa loro. Non sono appendici in più, i vecchi Imoca avevano le daggerboard per compensare il ridotto effetto antideriva della canting keel. Può essere un problema la loro dimensione eccessiva, in termini di superficie di mare spazzata da un pezzo di barca. La parte di foil che sporge esternamente dalla carena non è dimensionalmente limitata per regolamento. Non è detto che tale buco rimanga anche in futuro. Anche perché se la lama è molto grande (come quella di Thomson, per esempio) può rimanere il dubbio (finché i dati misurati saranno analizzati) che le forze esercitate siano superiori a quelle previste in fase di calcolo e quindi il risultato sia un cedimento strutturale come quello subito da Hugo Boss (anche se la barca era ben testata).
Il grosso problema dei foil, avrebbe detto un certo personaggio palermitano,: è il traffico. Di spazzatura, però. Sono gli impatti a rovinare molte appendici immerse, foil e timoni. In altre parole: non sono le barche a fare schifo, è il mare. E qui ognuno porti avanti le riflessioni che ritiene opportuno in autonomia.
L’idea della vela romantica, delle regate alla Moitessier che abbandona la vittoria per proseguire il suo personale vagabondare nei mari non c’entra nulla con chi punta alla vittoria di un Vendée. Qui ci sono professionisti e tanti soldi e non solo gente che ha le capacità umane e marinare di compiere un’impresa del genere. Chi parte per arrivare primo vuole vincere, ogni secondo da quando inizia il suo progetto. Nessuno degli skipper qui nominati, ha affrontato la regata pensando di imbarcarsi su un attrezzo che non avrebbe potuto riportarli a casa (e magari primi). Tutti consapevoli di ciò che stavano (o stanno, i 28 ancora in regata) affrontando. Per lo meno data salva la buona fede di tutte le parti coinvolte.
È il Vendée bellezza: non è detto che tu riesca a partire e anche ci se riesci è molto difficile che tu arrivi. Ma è altrettanto difficile che uno di coloro che potrebbero leggere ciò che stai leggendo adesso non conosca il nome di uno qualsiasi dei velisti che hanno vinto questa incredibile regata. E intanto il mitico Giancarlo Pedote su Prysmian Group è in decima posizione, nel gruppo di testa…